SANTA FRANCA E IL SUO CULTO
(del Prof. Giovanni Casali)
Il periodo che va dall’XI al XIII secolo è caratterizzato da
una rinascita artistica e culturale, su fondamenta di romanità, che va sotto il
nome di romanico. La società feudale si spezza, i nostri Comuni e le Repubbliche
marinare di Amalfi, Pisa, Genova e Venezia acquistano indipendenza e ricchezza
specialmente dopo le Crociate per la liberazione del Santo Sepolcro. L’Italia
esce dall‘oscurantismo dell’alto Medioevo, acquistando coscienza morale e
religiosa. Gli ordini monastici che già in precedenza costituivano gli unici
fari di luce e testimonianze di civiltà, acquistano grande potenza e autorità:
sono possessori e coltivatori di terre, austeri riformatori, fondatori di
conventi, di ospizi, di chiese e di biblioteche, con la preziosa opera di
amanuensi e di miniatori.
Col perdono di Canossa e il concordato di Worms si chiude la lotta per le
«investiture» e si afferma la potenza papale contro gli imperatori tedeschi.
Papato e Comuni sono alleati nella prima e nella seconda Lega Lombarda; nel 1175
Federico Barbarossa pone l’assedio per alcuni mesi ad Alessandria e
successivamente si sposta verso Voghera; nel 1176 avviene la battaglia di
Legnano che determina la sconfitta dell’imperatore. Nel 1182, nella chiesa di S.
Antonino a Piacenza, vengono firmati i preliminari della pace di Costanza;
malgrado tutto ciò, la vita ferveva nelle città per opere artistiche monumentali
sia religiose che civili, per la fioritura dell’artigianato e del commercio.
Quest’epoca tumultuosa è illuminata da grandi Santi:
S. Bernardo di Chiaravalle, francese (1091- 1153); S. Domenico di Gusman,
spagnolo (1170 - 1221); S. Francesco d’Assisi (1182-1226); S. Chiara
(1194-1253).
Sorgono per merito degli ordini monastici le grandi abbazie, le chiese
conventuali in tutta Europa, e con ciò il diffondersi dell’arte romanica e,
successivamente, gotica. In Italia, accanto al palazzo del Comune, sorge la
Cattedrale voluta dal popolo, ansioso di conquistare dignità e prestigio sociale
di paese libero, guidato dalla fede in tutte le manifestazioni del suo pensiero
e dell’attività umana. Misticismo profondo e poesia sublime orientano l’uomo del
Medioevo verso Dio e verso il mondo soprannaturale, ultraterreno: ne sono
testimonianza l’arte romanica e la letteratura romanza.
In quel contesto storico nascono in Umbria, come si è già detto, San Francesco e
la dolce sorella Chiara, canonizzata solo due anni dopo la morte; a Piacenza
nasce la vergine Franca Maria Vitalta (1175-1218). L’accostamento di S. Chiara e
di S. Franca non è soltanto per concomitanza di tempo, bensì per l’identica
missione sociale e spirituale che esse svolsero.
Entrambe nate da nobili famiglie, sin dalla tenera età rinunciarono a tutti i
fasti e agli allettamenti della ricchezza. Fondatrici di ordini e di monasteri,
servirono il Signore in profonda umiltà spirituale e purezza verginale della
carne, con una vita contemplativa ma non solitaria, che «…saziando di sè di sè
asseta» esplicarono una attività esteriore che rivela una mirabile capacità di
azione e una singolare prudenza. È lo stesso amore che avvampò nel cuore di S.
Francesco d’Assisi «... acceso di quel caldo che fa nascere i fiori e i frutti
santi».
Santa Franca nasce nel 1175 «da chiari genitori piacentini» discendente da
nobile famiglia, che nei suoi antenati noverava consoli e podestà e andava
orgogliosa soprattutto per l’integrità della fede e del costume. Vitalta, il
feudo dell’antica contea dove vide la luce la nobile giovane, era posto a
sud-ovest di Vernasca, su un’altura a mezza costa, dominante la Val d’Arda. La
nascita, secondo la tradizione popolare, viene preceduta da un sogno profetico
analogo a quelli che preconizzarono la nascita di S. Domenico e di S. Bernardo.
«La mamma ebbe ripetute volte la visione di dare alla luce una cagnolina molto
vivace e che abbaiava fortemente»; preoccupata si confidò col proprio
confessore, padre Attalo, che la assicurò con le seguenti parole: «Voi, signora
contessa, avrete una figlia fedele, prudente e saggia, che con la sua indefessa
vigilanza e con l’efficacia della sua parola, come cagnolina fedele, custodirà
fedelmente la casa del Signore e abbaiando fortemente contro il demonio,
riprenderà i peccati e i vizi di molti; con la sua lingua medicinale, con
salutari ammonimenti risanerà le infermità spirituali e ricondurrà molte anime
alla vita virtuosa e santa».
Franca venne allevata con diligenza nella pietà cristiana e nel timore di Dio. A
sette anni venne affidata alle suore di S. Siro per meglio completare la sua
formazione spirituale e ben presto dimostrò di superare le speranze che
riponevano in lei i suoi genitori. A soli 14 anni diede prova di aver acquisito
una tale maturità spirituale che a giudizio delle suore era degna di vestire il
sacro velo. Fu lo stesso Vescovo Tebaldo che ottenne la dispensa per l’età, in
virtù delle doti straordinarie della fanciulla e volle avere l’onore di vestirla
dell’umile divisa di monaca benedettina. Pare che una zia della conversa, mentre
il Vescovo la velava, vedesse scendere dall’alto un angelo che copriva con velo
celeste la stessa Franca, dedicandola a Cristo purificata degli affetti mondani.
Divenuta ormai sposa di Cristo, prese ad osservare scrupolosamente con coraggio
virile ciò che la regola comandava. Oltre ai soliti digiuni, per tre giorni alla
settimana rimaneva a pane e acqua, serbando del primo i pezzi più belli per i
poveri; nella quaresima, l’unico cibo cotto che consumava era il pane, ma il suo
regime era praticamente una continua quaresima dedicata all’amore per la
povertà, come per il serafico San Francesco. Frugalissimo il suo cibo: erbe
crude senza sale e passate nel vino, com’era uso in convento. Dopo la recita dei
servizi divini Franca serviva le inferme con carità e pazienza.
Nel 1198 morì la badessa Brizia e, com’era prevedibile, nonostante la giovane
età, per decisione unanime delle cinquanta monache venne eletta, come badessa,
Franca. Dotata di senso pratico, intervenne con saggezza oculata negli affari e
nei contratti che riguardavano il monastero. Tollerante dei difetti altrui, non
lo era affatto verso di sé: la cella più povera era la sua; avrebbe desiderato,
e lo diceva spesso alle sorelle, di essere priva anche del necessario per poter
più da vicino seguire Gesù ignudo sulla croce. E poiché alcune sue consorelle
non erano animate dallo stesso spirito di rinuncia e di sacrificio, si
dimostrava ancor più zelante per combattere la tendenza al lassismo, temperando
la severità delle ammonizioni con la dolcezza e la mansuetudine, tanto che le
stesse consorelle avversanti la riforma della vita monastica, non potevano non
ammirarla. Ciò nonostante, alcune monache cominciarono a muovere una sorda
guerra e suor Franca fu aspramente combattuta da quelle sorelle che della
riforma avrebbero avuto più bisogno. Fra queste spiccava Binia, della nobile
famiglia Porta, sorella del Vescovo Grimerio. Disponendo essa di cospicue
aderenze, fece sì che anche il Vescovo si schierasse dalla sua parte. La
persecuzione contro Franca divenne terribile. Presero parte alla contesa Uberto
da Vitalta e Ruffino della Porta, uomini assai influenti: avendo occupato
parecchie volte il consolato e il reggimento di Piacenza, avevano largo seguito
nella nobiltà e nel popolo, sicchè la città fu divisa in due campi contrapposti.
Ma Franca era stata ad una scuola che insegnava a non temere gli uomini,
qualunque fosse il loro grado e la loro potenza, ma solamente Dio; e accettò le
croci come celesti messaggere di un segno di predestinazione, e Dio, al quale
aveva affidato la sua causa, sostenne la sua serva nel duro cimento guidandola
alla vittoria.
Il Pontefice, chiamato in causa, intervenne schierandosi dalla parte della
verità e si prodigò per ristabilire la pace. Lo stesso Vescovo, forse
consigliato saggiamente da San Fulco (parroco di S. Eufemia), si ricredette e
nel convento di S. Siro tornò la serenità.
Ma il ritorno della serenità era dovuto in primo luogo alle ardenti preghiere di
Franca; chiusa nel suo monastero, non solo pregava per la pace del chiostro, ma
soprattutto pregava per la città di Piacenza che era in guerra con le città
vicine, dilaniata da lotte interne provocate dalle rivalità che si erano create
nello stesso monastero di S. Siro. A complicare la situazione si aggiunsero
anche calamità naturali. Piacenza venne inoltre colpita dall’interdetto del Papa
che volle punire la città e i suoi consoli che avevano costretto il Vescovo e il
clero a ritirarsi per più di tre anni fuori dalla città, a Cremona. Per merito
delle fervorose preghiere di Franca e delle sue suore e della loro
intercessione, Piacenza veniva restituita alla comunione dei fedeli. Ritornò la
calma in città, il Vescovo rientrò col suo clero e il monastero di S. Siro
costituì per la cittadinanza un esempio da seguire. Sotto la guida illuminata di
Franca il monastero acquistò maggior stima e prestigio e godette di particolari
privilegi e beni.
Da tempo Franca desiderava più intensa austerità e clausura, con maggior
raccoglimento e preghiera. Per coronare il suo sogno fu provvidenziale il suo
incontro con la nobile giovane sedicenne, cugina di Tebaldo Visconti (futuro
Papa Gregorio X) Carenzia Visconti; dopo un colloquio con la badessa, col
permesso dei genitori, Carenzia fu invitata a Rapallo presso il Monastero
«Vallecristi» della riforma cistercense, della più stretta osservanza. Dopo un
anno di soggiorno essa tornò entusiasta e decisa a farsi monaca; chiese ed
ottenne dai famigliari la ricca dote che serbava per il suo matrimonio e, con
l’aiuto di altri nobili, i Visconti acquistarono un vasto appezzamento di
terreno sul Montelana, e, sullo spartiacque della Val Nure e della Val d’Arda,
nel 1112, ebbe inizio la costruzione del convento.
Nell’alta Val d’Arda esistevano già monasteri Benedettini: quello
importantissimo di Val Tolla, dedicato al Salvatore, fondato, secondo il Campi
nel 680 da un certo Beato Tobia; e quello del Monte Pelizzone, sullo stesso
crinale della catena di monti che chiude la Val d’Arda, al lato opposto di
Montelana, la cui fondazione potrebbe forse risalire all’epoca longobarda.
Entrambi i monasteri sorgevano sulla strada che collegava la Val Padana alla
Lunigiana; il Convento-Ospedale Benedettino del Monte Pelizzone venne conglobato
all’ospedale di Piacenza l’11 aprile 1471 (decreto del Duca Galeazzo Maria
Sforza e bolla Pontificia di Sisto IV).
Già nell’estate del 1214 Carenzia e dieci compagne si trasferirono nel nuovo
convento chiamato Santa Maria di Montelana, alle dipendenze del monastero di
Chiaravalle della Colomba (Alseno), con l’incoraggiamento e la benedizione del
Vescovo Fulco Scotti. Come da desiderio delle giovani suore, dopo pochi mesi
Franca, la badessa di S. Siro, iniziatrice dell’ordine Cistercense nel
piacentino, passando dalle nere lane benedettine a quelle candide cistercensi si
unì a loro. Qui ed altrove ella divenne propugnatrice di quell’ordine; mantenne
l’amministrazione e la direzione di S. Siro, lasciando una vicaria a
sostituirla.
Nel nuovo monastero di Santa Maria di Montelana si realizzava l’aspra povertà a
cui la Santa badessa tanto aveva anelato: il silenzio, la lontananza dai rumori
mondani e la più difesa solitudine. Veniva così praticata la regola che S.
Bernardo ripristinò dal principio alquanto affievolito di S. Benedetto «prega e
lavora».
Il soggiorno biennale di Montelana si può dire che fu una diuturna e intensa
conversazione di Franca col suo Dio. Scrive lo storico piacentino Pancotti:
«Montelana segna, a mio avviso, il punto più saliente delle ascensioni
spirituali della nostra Santa. Qui, più che negli altri monasteri, che prima e
dopo ebbe ad abitare, dispiegò Franca i mirabili carismi dei quali a dovizia
venne dall’Altissimo ricolmata; e qui più che altrove i caratteri della sua
santità ci appaiono somiglianti a quelli della santità di Chiara d’Assisi ...
Parlando S. Franca di questo suo soggiorno e delle grazie divine qui ricevute,
soleva dire che Montelana fu il suo Tabor, dove discendendo portò negli altri
Monasteri, da lei successivamente edificati, di Vallera e di Pittolo, il fuoco
sacro che il Signore le aveva acceso in cuore» [Nota:V.
Pancotti, la Mistica di Montelana].
Dopo due anni di soggiorno nel convento di Montelana venne deciso il
trasferimento delle giovani monache, in considerazione dei pericoli nei quali
potevano incorrere: isolate, soggette a rapine, scorrerie e saccheggi di ogni
genere, dovevano anche far fronte alle difficoltà nel l’approvvigionamento.
Passarono così al Monastero di Vallera e poi a Pittolo, dove, grazie alle
donazioni dei nobili di Tuna, poterono costruire monastero e chiesa intitolati a
Santa Maria del «Terzo Passo»: la loro terza dimora.
La grande spiritualità della nostra Santa acquista maggior risalto se si
considera il suo fisico fragile, sottoposto a vita austera di incessanti digiuni
e ininterrotte astinenze.
Nella primavera del 1218, dopo aver celebrato in letizia la Santa Pasqua con le
consorelle, venne colta da febbre altissima che distrusse le sue residue energie
e il 25 aprile all’età di 43 anni spirò in un’aura di soave beatitudine celeste.
Alle consorelle rivolse le ultime parole: «Siate ubbidienti, caritatevoli,
mansuete ed umili le une verso le altre ... Non basta la lampada della
verginità, ci vuole l’olio della mansuetudine, della pietà, della carità».
Tanto era l’attaccamento al monastero che le suore, rispettando le ultime
volontà della Santa, la tumularono nell’oratorio dello stesso monastero. La
salma di Santa Franca suscitò subito viva venerazione e, successivamente, venne
traslata in luoghi sempre più solenni, finchè dal 1935 trovò degnissimo riposo
nella chiesa di San Raimondo, annessa al Monastero delle monache benedettine
cassinesi. [Nota: In un primo tempo i resti conservati in una
cassetta di piombo vennero inseriti in un bel simulacro della Santa fatto
eseguire in cera e vestito con l’abito nero benedettino, ornato con la croce
pettorale, il pastorale, la regola e un giglio, racchiusa in un’urna collocata
sotto l’altare della Madonna. Il 27 gennaio 1975, in occasione delle
celebrazioni dell’800° anniversario della nascita di Santa Franca, volute dal
compianto Vescovo Mons. Enrico Manfredini, venne eseguita la ricognizione dei
resti mortali della Santa per verificare l’autenticità delle ossa, per
controllare le condizioni di decoro e di rispetto in cui erano conservate e di
appurarne anche lo stato di sicurezza. I resti vennero poi riposti in una
cassetta di acciaio inossidabile offerta dalla nuova Parrocchia di S. Franca di
Piacenza a cui sono stati posti i sigilli del Vescovo Mons. Manfredini. L’urna
di marmo contenente la cassetta, coperta da cristallo, venne collocata nella
Cappella sinistra di chi entra nella Chiesa di S. Raimondo “ultima culla di suor
Franca” e ultimo desiderio della Santa “….voglio rimanere insieme alle mie care
figlie”.]
La presenza della Santa lasciò un profondo segno nella popolazione locale, che
la ricordarono con una sagra assai sentita, Anche oggi al centro di prati
verdeggianti e sfiorato da un se colare faggeto, sul monte si erge un rustico
oratorio. Secondo i documenti relativi alle visitè pastorali conservati
nell’archivio della Curia vescovile di Piacenza, la costruzione del primo
oratorio risale al 1639 ma gia nel 1703 il priore di Morfasso d. Damiano Salmi
ottenne dal vescovo la licenza di erigerne uno nuovo, che infatti costruì
spendendo lire (vecchie) 2.353. Ma la devozione a Franca talvolta esulava al
campo strettamente spirituale, tanto che il vescovo Pisani nel 1774 fece
trasferire il quadro della Santa nella chiesa di Morfasso e un anno dopo ordinò
la demolizione dell’edificio. Di tale sìtuazione fa cenno anche il Boccia nel
suo «Viaggio ai monti di Piacenza (1805)».
L’ultima domenica d’agosto del 1824, giorno della Sagra che ricorda la presenza
Franca, si inaugurò un nuovo oratorio, costruito «vicino al vecchio monastero là
dove, come dice la tradizione, l’aveva edificato S. Franca e del quale si
trovano ancora dei ruderi» (Visita pastorale Loschi 1785). La travagliata
vicenda del sacello si concluse soltanto nel 1882 con la costruzione di quello
attuale, voluto dal parroco di Mòrfasso don Lorenzo Bracchi.
Per l’affacciarsi di varie e nuove esigenze il parroco propose alla sua gente di
costruire il sacro edificio nel luogo attuale, su terreno a lui donato da una
signora di Piacenza. Il proposito fu accolto con entusiasmo: ogni domenica, dopo
la messa, uomini e donne si avviavano verso il monte per procurare il materiale
occorrente per l’edificazione: così sorse l’oratorio, fatto di sassi ma anche di
sacrificio, amore e fede.
Il sacello è tuttora ben conservato; in una nicchia dell’abside custodisce la
statua lignea della Santa con l’abito cistercense. Poco lontano vi è una
sorgente d’acqua; secondo la tradizione essa scaturì per desiderio di Franca che
le avrebbe conferito proprietà risanatrici.
Quando la Santa era ancora in vita operò molti miracoli fra le consorelle e fra
i laici; altri miracoli operò nei secoli successivi alla sua morte, tanto che i
conventi di S. Siro e di Pittolo divennero meta di pellegrinaggi e luoghi di
culto. I fatti miracolosi riguardavano guarigioni di ciechi. Nel 1949 una monaca
di S. Raimondo guarì istantaneamente dal male ad un occhio mentre pregava e
toccava il simulacro che conteneva le reliquie della Santa.
Le narrazioni epistolari del suo contemporaneo Frate Lanfranco da Quartazzola e
il suo primo biografo padre Reoldo (1326), ci offrono non solo documenti
attendibili, ma mettono in evidenza l’eccezionale energia spirituale della Santa
taumaturga. Lontana nel tempo, Santa Franca ha sempre una sua attualità. Il suo
culto si propagò rapidamente e con molta probabilità fu canonizzata nel 1273 dal
suo concittadino papa Gregorio X, che si era fermato a Piacenza prima di recarsi
al Concilio di Lione.
Un documento di fine ‘600 firmato da Damiano Salmi priore, che si trova presso
la Biblioteca Comunale di Piacenza, al titolo «Opere miracolose seguite in Monte
Lana al Pozzo di Santa Franca posto nel comune di Morfasso Diocesi Piacentina.
Nel mese di luglio 1698 cioè il 25 e 26 di detto Mese», racconta i vari prodigi
accaduti sul monte (che allora si chiamava Monte Lana e non Santa Franca come
oggi) nonchè la devozione popolare verso la Santa.
Eccoli, dunque, i miracoli: una giovane di Pedina “del tutto muta”, condotta al
pozzo, “bevuta quell’acqua ricuperava la loquella”; un malato, egli pure di
Pedina; “havendo un gallone e la gamba da quella parte tutta morta lavandosi con
l’acqua suddetta ridiventa gagliardo”; un altro infermo, ancora di Pedina, preso
da febbre acutissima e ritenendosi “sbrigato”, ossia irrimediabilmente destinato
a morire, su consiglio del suo parroco beve l’acqua e viene sanato. Su questi
fatti fa testimonianza il parroco di Pedina.
Vengono pure risanate una quindicenne di Boccolo affetta da mal di denti e una
donna di Sperongia - Elena Ravazola di 60 anni - che soffre di male agli occhi.
Una giovane di 16 anni, di Gambaro, il 15 d’agosto, giorno dell’Assunzione,
tormentata da spiriti maligni che la fanno smaniare tra urla e suoni
animaleschi, viene liberata dall’acqua che il sacerdote “assistente al pozzo” le
fa a forza trangugiare, e lascia in dono un vestimento intero e cioè “giuppone,
socca (gonna), calcette, scarpe, fazzoletto”. Più di trenta donne “spiritate” -
assicura don Salmi - sono state ugualmente sanate. La croce che si erge accanto
al pozzo reca le testimonianze delle grazie ricevute dai fedeli.
Un fatto prodigioso ancor più rilevante accade poi a Piacenza: “Una monaca di S.
Siro, ricevuti tutti i Sacramenti della Chiesa, abbandonata da Medici, e tenuta
sbrigata, consigliata dalla infermiera o altra Monaca a bevere un boccone
d’acqua del pozzo di Santa Franca di Monte Lana, acconsente, la beve, e subito
per la providentia del Cielo dimanda i suoi vestimenti, e nell’istesso giorno si
fa’ portare al Choro, aiuta le altre Monche a cantar il Magnificat, e nel giorno
seguente da per se stessa corre alla Chiesa esaltando le glorie e miracoli di
Santa Franca”. La madre badessa Maria Geltrude Anguissola conferma questi fatti
al priore, il quale a sua volta è convocato dal Vescovo per esaminare gli eventi
prodigiosi di cui - egli assicura - a Piacenza si parla “con ogni chiarezza,
verità e allegrezza”.
Queste sono le testimonianze che il priore, con linguaggio stentato ma fede
ferrea, reca, non sappiamo bene a chi, dato che nello scritto non compare il
destinatario.
A parte il giudizio su queste opere «miracolose» il documento conferma la
devozione plurisecolare che in una vasta area ha accompagnato il ricordo di
Santa Franca Vitalta e del suo romitaggio sulla montagna che oggi porta il suo
nome.
Della stessa fontana miracolosa di Santa Franca parla accuratamente il Boccia:
«... Do ve sgorga vi sono due muriòciuoli di pietra ed una vaschetta quadrilunga
nella quale alligna la conferva. Le acque di questa diconsi famose per
l’oftalmia ed i fedeli attribuiscono loro proprietà di guarire miracolosamente
ogni male. Malgrado che non vi sia più cosa alcuna di sacro, ciò nullostante la
prima domenica di S. Bartolomeo vi concorre un’infinità d’abitanti di que’
dintorni, attratti dalla divozione verso questa santa e dalle acque del fonte
miracoloso. Ivi pure vi accorrono venditori di vino e di come stibili ed anche
dei suonatori ...».
Una documentazione figurativa, dove è evidenziato il carattere agreste della
festa ci è offerta da un bell’acquerello di Stefano Bruzzi.
In tempi più vicino a noi, fra i ricordi più cari della mia infanzia vissuta
nell’alta Val d’Arda, è rimasta viva in me la celebrazione della sagra che ogni
anno si tiene l’ultima domenica di agosto (da qualche anno la celebrazione si
tiene la prima domenica d’agosto).
Per diversi giorni, prima e dopo la ricorrenza, le strade in passato erano
partìcolarmente animate, giorno e notte, per il passaggio di pellegrini
provenienti da paesi più o meno lontani. Gruppi di persone si susseguivano, la
maggior parte a piedi, qualcuna a cavallo, con le loro provviste. A intervalli
intercalavano alle preghiere i canti creando un’atmosfera gioiosa di grande
festa, alla quale tutta la valle sembrava concorrere. Per acquistare maggior
meriti, diversi pellegrini camminavano scalzi.
I tèmpi sono cambiati. Sul monte Santa Franca la maggior parte dei partecipanti
alla grande festa devozionale e popolare arriva ora in auto, il pellegrinaggio
ha perso il carattere agreste, di antico rito; ma nell’animo dei fede li devoti
alla nostra Santa vibrano i sentimenti di sempre. A distanza di 800 anni
accorrono ancora a deporre ai suoi piedi le ansie, le tribolazioni, i tormenti e
le preoccupazioni non inferiori a quelle che visse la Santa ai suoi tempi.
La festa, sull’alto e bellissimo pianoro (m. 1300 di altitudine) circondato da
secolari alberi di faggio, è anche occasione di incontri fra conoscenti ed
emigrati che, prima di ripartire dalla loro terra per lontani lidi, rendono un
omaggio alla Santa e lasciano un saluto di commiato agli amici.
In quel luogo vi è un senso di grandiosità, di benedetto, di santificante; vi è
un vibrare di memorie, un senso dell’ineffabile linguaggio de gli umili e dei
semplici del Vangelo, ai quali viene rivelato più che ai sapienti. Questa è la
mistica del Monte Santa Franca.